Qualche chilo di Uranio per trasferirsi su Marte

di Martina Gallarati

Una missione spaziale è un viaggio unico nel suo genere, che per sua natura deve essere programmato nei minimi dettagli. Sonde inviate per indagare pianeti e corpi celesti lontani, satelliti che orbitano attorno alla terra per raccogliere dati, o navicelle che prevedono la presenza di un equipaggio per condurre ricerche e sperimentazioni: in ognuno di questi casi è necessario che ogni strumento scientifico funzioni correttamente…e che disponga di sufficiente energia elettrica per farlo!

Quando il Sole non basta.

Per alimentare gli strumenti e gli apparati di bordo in uso durante una missione spaziale, tipicamente si utilizzano grandi pannelli fotovoltaici, che convertono l’energia proveniente dai raggi solari in energia elettrica. In aggiunta a questi, sono sempre presenti dei sistemi di accumulo dell’energia prodotta, come ad esempio delle batterie, che alimentano la navicella quando i pannelli fotovoltaici non sono direttamente esposti ai raggi solari. Sappiamo tutti, però, che le batterie hanno un’autonomia limitata nel tempo e che prima o poi si scaricano: a chi di noi non è mai capitato che la batteria del cellulare o dell’auto si scaricasse nei momenti meno opportuni? Supponiamo quindi che la nostra sonda si trovi in una posizione per cui i raggi solari che vi incidono sono troppo deboli. In questo caso entreranno in gioco le batterie, che erogheranno energia elettrica finché anche loro non saranno più utilizzabili. A questo punto, la domanda sorge spontanea: gli scienziati hanno pensato ad un piano C? Naturalmente! La navicella può essere dotata di una massa variabile, a seconda degli utilizzi, di elementi radioattivi. La peculiarità di un elemento radioattivo è che incorre in un processo di decadimento che, tra i suoi effetti, ha anche quello di produrre calore. Questo è l’aspetto sul quale ci concentriamo: il calore prodotto dal decadimento può essere convertito in elettricità. L’indiscutibile vantaggio di questa tecnica è che produce energia continuativamente nel tempo, perché gli elementi radioattivi scelti per questa applicazione hanno una emivita molto lunga e si “consumano” molto lentamente. Questo significa che possono funzionare per tantissimi anni (più di una vita umana!) senza bisogno di alcun intervento di sostituzione o manutenzione, indipendentemente dalla presenza o assenza dell’esposizione ai raggi solari. Si capisce quindi perché l’implementazione di questi elementi radioattivi sia di fondamentale importanza: in questo modo si ha sempre a disposizione dell’energia durante una missione, anche quando i raggi solari sono schermati e le batterie scariche. Se poi immaginiamo che la sonda sia stata lanciata nello spazio per esplorare corpi celesti lontani, troppo distanti dal Sole, allora questa soluzione diventa automaticamente il piano A.

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Figura 1. I grandi pannelli fotovoltaici della Stazione Spaziale Internazionale. [NASA]

Dai decadimenti radioattivi all’elettricità

Sulla base di questo principio, sono stati realizzati diversi sistemi adatti all’utilizzo nello spazio. Tra questi, i più utilizzati sono senza dubbio i generatori termoelettrici a radioisotopi. Non lasciamoci intimorire dal nome complicato: il funzionamento è esattamente quello descritto precedentemente. Si tratta di dispositivi che contengono una massa di elementi radioattivi a vita lunga; il calore prodotto dal loro decadimento radioattivo viene continuativamente convertito in elettricità. Normalmente sono utilizzati a questo fine il Plutonio 238, l’Americio 241 e, in misura minore, il Polonio 210. Questi generatori sono stati ampiamente utilizzati durante le missioni spaziali. Per riportare solo un esempio, sono stati utilizzati 33 kg di ossido di Plutonio 238 per alimentare la sondadella missione spaziale Cassini-Huygens, una missione frutto della collaborazione tra NASA, ESA ed ASI e avente come oggetto lo studio di Saturno e del suo satellite Titano. I risultati scientifici raccolti durante questa missione stanno permettendo di approfondire la conoscenza della composizione e della struttura del sistema planetario di uno dei più complessi pianeti gassosi.

Riscaldamento nucleare

Una seconda classe di dispositivi è rappresentata dalle unità di riscaldamento a radioisotopi. Questi strumenti funzionano come quelli precedenti, l’unica differenza è che il calore prodotto dal decadimento non è convertito in elettricità bensì utilizzato direttamente. Più precisamente, il calore prodotto viene impiegato per tenere caldi gli strumenti scientifici, così da garantirne il corretto funzionamento. Anche di questo aspetto abbiamo sicuramente fatto esperienza: in inverno, quando fa particolarmente freddo, la batteria del cellulare ha vita molto breve e tende a scaricarsi rapidamente. Per mantenere gli strumenti utilizzati nello spazio alla loro temperatura operativa ideale possono essere sufficienti alcuni grammi di isotopo radioattivo, tipicamente quelli visti precedentemente. Per riportare un esempio di questa applicazione possiamo tornare indietro alla storica missione lunare Apollo 11 che portò l’uomo sulla Luna per la prima volta: il sismometro, posizionato sul Mare della Tranquillità per misurare eventi sismici lunari, era provvisto di alcuni grammi di Plutonio 238. Le unità di riscaldamento a radioisotopi hanno trovato applicazione specialmente sulla Luna, per via della sua fredda e lunga notte, della durata di due settimane.

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Figura 4. Buzz Aldrin trasporta due componenti importanti per l’acquisizione di alcuni dati lunari: il Passive Seismic Experiments Package (sismometro) a sinistra, e il Laser Ranging Retro-Reflector a destra. [NASA]

Centrali nucleari volanti.

Gli elementi radioattivi non sono gli unici strumenti di natura nucleare che si utilizzano per queste applicazioni. L’ultima categoria di dispositivi è rappresentata da veri e propri reattori nucleari, di dimensioni molto più compatte rispetto a quelli presenti sulla Terra. Il principio fisico che ne governa il funzionamento, tuttavia, è analogo: i reattori nucleari sono in grado di fornire elettricità convertendo il calore prodotto dalle reazioni di fissione dell’uranio. Rispetto al caso precedente, quindi, il calore è prodotto da reazioni nucleari sull’uranio anziché dal processo di decadimento. I piccoli reattori nucleari per la produzione di elettricità a bordo sono in grado di fornirne molta di più dei generatori a radioisotopi citati precedentemente e sono quindi pensati per scopi più ambiziosi. In questo senso, la NASA sta portando avanti un progetto di ricerca molto importante che mira alla realizzazione di Kilopower, un reattore nucleare piccolo e leggero, che dovrebbe contenere circa 44 kg di Uranio 235 e che sarebbe in grado di fornire continuativamente fino a 10 kW di potenza elettrica. Per avere un’idea, il reattore sarebbe in grado di alimentare diverse abitazioni medie per almeno 10 anni! Kilopower avrà il principale obiettivo di alimentare missioni di lunga durata con equipaggio sulla Luna, su Marte e verso altre destinazioni. L’utilizzo di 4 Kilopower potrebbe garantire la fornitura di potenza per alimentare un avamposto umano sulla Luna o su Marte.

La ricerca e lo sviluppo di soluzioni sempre più innovative fanno sì che il fondamentale contributo della fonte nucleare all’ambito spaziale sia senza dubbio destinato ad evolversi e a crescere. Nel frattempo, iniziamo a sognare una vacanza su Marte!

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Figura 5. Prototipo del reattore Kilopower, sviluppato presso il Glenn Research Centre della NASA. Il reattore è costituito da un nocciolo che ospita l’uranio in basso, dai condotti per il trasferimento del calore al centro e infine dai motori Stirling in alto. [NASA]
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Figura 6. Immagine futurista del network di reattori Kilopower che garantirebbero l’alimentazione di una postazione su Marte. [NASA]

Per saperne di più:

Immagini:

1. https://www.nasa.gov/archive/content/solar-arrays-on-the-international-space-station

2. https://www.jpl.nasa.gov/missions/cassini-huygens/

3. https://www.nasa.gov/directorates/heo/scan/images/history/December2004.html

4. https://www.nasa.gov/content/buzz-aldrin-deploys-apollo-11-experiments

5. https://aerospaceamerica.aiaa.org/departments/space-nuclear-power-seriously/

6. https://aerospaceamerica.aiaa.org/departments/space-nuclear-power-seriously/

2 pensieri riguardo “Qualche chilo di Uranio per trasferirsi su Marte

  1. Ho letto l’articolo e l’ho trovato interessante. Mi chiedevo per quale motivo quando si parla del decadimento radioattivo che genera calore che poi viene convertito in elettricità non si citano il tipo di decadimento e l’effetto seebeck che ne è alla base? Immagino si volesse rimanere ad alto livello senza entrare troppo in dettagli, però era carino spiegarne i vari principi fisici alla base visto che sono conosciuti e utilizzati in vari ambiti da oltre 50 anni. Ringrazio anticipatamente

  2. Caro Erio, mi fa piacere che abbia trovato l’articolo interessante. Come hai scritto, non ho toccato i temi che hai menzionato per ragioni di sintesi; approfitterò quindi del tuo commento per fornire qualche informazione al riguardo.

    I generatori termoelettrici a radioisotopi sono costituiti principalmente da due componenti: il combustibile, che ha la funzione di generare calore, e un dispositivo termoelettrico, che ha la funzione di convertire il calore in elettricità.

    Il combustibile è rappresentato dagli isotopi radioattivi di cui ho parlato nell’articolo. Più nel dettaglio, quelli che maggiormente si prestano a questo tipo di applicazione devono soddisfare alcuni requisiti: avere un tempo di dimezzamento sufficientemente lungo, per poter fornire calore sul lungo periodo; produrre una buona quantità di potenza per unità di massa (nello spazio è importante essere performanti e leggeri!); non produrre radiazioni penetranti, come raggi gamma e neutroni, come conseguenza del decadimento, che richiederebbe l’implementazione di schermature ingombranti. Per queste ragioni i candidati migliori sono i radioisotopi che incorrono nel decadimento alfa e che hanno un tempo di dimezzamento di alcuni decenni.

    Il componente che converte il calore prodotto dal decadimento in elettricità è la termocoppia, probabilmente nota ai più perché, come hai fatto notare anche tu, il suo utilizzo è estremamente trasversale. La termocoppia è un dispositivo termoelettrico costituito da due metalli diversi, connessi a formare un circuito chiuso. Il fenomeno fisico alla base del suo funzionamento è l’effetto Seebeck o effetto termoelettrico: in un circuito formato da due metalli, una differenza di temperatura tra le due giunzioni genera una corrente che fluirà lungo il circuito. Sfruttando questi principio, il calore prodotto dal decadimento radioattivo genera una differenza di temperatura agli estremi del dispositivo (la parte più vicina al combustibile si troverà ad una temperatura maggiore), la quale a sua volta genera una corrente elettrica. Più in generale, le termocoppie sono note perché utilizzate per misurare la temperatura: da un punto di vista microscopico, la differenza di temperatura provoca la migrazione dei portatori di carica all’interno del materiale conduttivo; la temperatura è definita attraverso la misura della differenza di potenziale che, di conseguenza, si genera nel circuito.

    Il limite principale di questi sistemi è la bassa efficienza di conversione. Uno spunto per concludere: una promettente alternativa alla termocoppia, che mira a superare questo limite, è rappresentata dall’utilizzo di generatori dinamici, che sfruttano motori Stirling accoppiati ad alternatori.

    Spero di aver risposto al tuo commento; a presto!

    Martina

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