L’energia nucleare e il rapporto JRC

di Vladimiro Zacchigna

Nel 2019, il Technical Expert Group (TEG) nominato dalla commissione europea, si trovò in difficoltà nel dover determinare se l’energia nucleare potesse essere inserita o meno nella tassonomia europea.
Mentre sul primo punto del regolamento il gruppo non ebbe dubbi, sostenendo che “il potenziale contributo dell’energia nucleare agli obiettivi di mitigazione del cambiamento climatico è ampio e chiaro”, grande incertezza si rivelò riguardo il rispetto degli altri 5 principi:

  • Adattamento al cambiamento climatico
  • Uso sostenibile e protezione dell’acqua e delle risorse marine
  • Transizione verso un’economia circolare
  • Riduzione degli sprechi e riciclo dei materiali
  • Contenimento dell’inquinamento e tutela degli ecosistemi.

Di conseguenza il TEG si definì non competente per prendere questa decisione e raccomandò un lavoro più ampio preparato da un gruppo di esperti del ciclo di vita nucleare e del ciclo del combustibile.
E’ così che nell’estate del 2020, la commissione europea (DG FISMA) incarica il Joint Research Centre (JRC), l’organo scientifico indipendente dell’UE, di redigere un’analisi approfondita che concluda se l’energia nucleare rispetta o no i 6 obiettivi della tassonomia europea [1].
Lo studio esamina quindi gli effetti dell’utilizzo dell’energia nucleare nei confronti del criterio di Do Not Significant Harm (DNSH), comparandoli con gli impatti derivanti da altre fonti di energia già considerate sostenibili. Infine, prima della pubblicazione, due commissioni di esperti indipendenti hanno revisionato il documento fornendo pareri tecnici: la Scientific Committee on Health, Environmental and Emerging Risks (SCHEER) [2] e il gruppo di esperti relativo all’articolo 31 del trattato Euratom [3]. Entrambi i gruppi concordano con le conclusioni del JRC, è giusto però sottolineare che lo SCHEER, nel suo report, muove diverse critiche. In particolare riguardo l’interpretazione del concetto di DNSH, che secondo gli autori viene rispettato se l’impatto valutato è pari o inferiore a quello di altre tecnologie già incluse nella tassonomia, mentre secondo lo SCHEER non è sufficiente e per quanto concerne la questione dell’inquinamento termico.
Il JRC ha quindi confrontato l’energia nucleare con le altre fonti già presenti all’interno della tassonomia europea (cap 3.2), basandosi sull’attuale stato dell’arte della letteratura scientifica di LCA.
Gli impatti ambientali analizzati sono:

  • Emissioni di gas climalteranti (GHG)
  • Uso delle risorse idriche e marine
    • Consumo di acqua
    • Emissioni di NOx e SO2
    • Acidificazione ed eutrofizzazione delle acque
    • Ecotossicità dei bacini e dei mari
  • Produzione di rifiuti e loro riciclabilità
    • Utilizzo di minerali (rispetto alla loro abbondanza sulla Terra)
    • Riciclabilità dei materiali
    • Occupazione del suolo
    • Generazione di rifiuti chimici
    • Generazione di rifiuti radioattivi
  • Rilascio di sostanze inquinanti nell’ambiente
    • Particolati in atmosfera
    • Potenziale impatto sull’ozono
    • Creazione di ossidanti fotochimici
    • Potenziale tossicità umana
    • Mortalità umana

Parte A:

Emissioni del nucleare:
Visto l’attuale contesto di crisi climatica, le emissioni di gas climalteranti sono uno dei principali indicatori da prendere in considerazione e si misurano dividendo la massa di GHG rilasciati durante tutte le fasi della vita di un impianto per la quantità di energia che produrrà (gCO2eq/kWh).
Lo studio scelto dal JRC per fare il primo confronto tra le diverse fonti attesta il nucleare a 28 gCO2eq/kWh [4], in linea con eolico e idroelettrico (Fig 3.2-6, parte A del report). Il valore risulta più alto di quanto riportato dall’analisi sistematica di Warner and Heath (2012) [5], pubblicazione utilizzata anche dall’IPCC, ovvero 12 gCO2/kWh. Tale differenza è dovuta all’uso della mediana (meno influenzata da valori estremi) anziché della media e al lavoro di armonizzazione eseguito dagli autori. Studi con assunzioni più attuali mostrano come le emissioni si attestano con ogni probabilità sotto i 10 gCO2eq/kWh, soprattutto per il nostro continente, visto il mix energetico più pulito [6][7][8][9][10][11][12]. Questo calo è determinato principalmente dalle assunzioni sul metodo di estrazione e sulla tecnologia per l’arricchimento dell’uranio. Per estrarre il minerale esistono soprattutto tre tecniche: miniere a pozzo aperto, miniere sotterranee e lisciviazione in situ. La terza tecnica risulta essere la meno impattante dal punto di vista delle emissioni e in continua crescita, oltre che la più utilizzata da diversi anni. Per arricchire l’uranio esistono invece due tecniche: diffusione gassosa e centrifugazione. La prima tecnica, dal 2020, è stata sospesa a livello globale, passando quindi alla seconda, decisamente meno energivora (circa 50 volte)[6]. Va detto che anche la concentrazione di uranio ha un elevato impatto sulle emissioni; però, osservando il contesto con ottica futura, con mix energetico pulito, i possibili metodi di estrazione alternativi (acqua di mare) e la IV generazione, è probabile che le emissioni dell’energia nucleare mantengano questa tendenza. Uno studio che prova ad analizzare le emissioni in futuro (al 2050), basandosi quindi su mix energetici più puliti ma senza considerare il calo della concentrazione, è Pehl et al. (2017) [13] ed attesta il nucleare stabilmente sotto i 5gCO2/kWh.
Si può perciò concludere che, come affermato nel report JRC, le emissioni medie di gas serra nel ciclo di vita dell’energia nucleare sono paragonabili ai valori dell’energia idroelettrica ed eolica.


Inquinamento idrico:
Gli indicatori da analizzare per l’impatto idrico sono diversi: consumo d’acqua, potenziale di acidificazione, potenziale di eutrofizzazione, potenziale di ecotossicità acquatica (marina e d’acqua dolce) e inquinamento termico. Il consumo d’acqua, come per ogni impianto termoelettrico, è più elevato di fonti come fotovoltaico ed eolico, però in linea con altre rinnovabili come idroelettrico (che però non dissipa l’acqua), solare a concentrazione o biomasse (Fig 3.2-7, parte A). Vista la stretta correlazione tra le emissioni di NOx e SO2 e gli altri potenziali sopracitati, il basso inquinamento atmosferico comporta anche un basso inquinamento idrico (Fig 3.2-9, -10, -11, parte A).
Vi è poi l’inquinamento termico, che però, come sottolineato nella revisione dello SCHEER, purtroppo non viene particolarmente approfondito all’interno del report. 

Nota dell’autore:
In ogni caso le misure di prevenzione, basate sulle stringenti normative europee, e accorgimenti come l’attenta scelta del sito (verificando le disponibilità di ampie risorse idriche, la profondità dei fondali o la presenza di correnti), il riciclo dell’acqua scartata, l’iniezione di acqua aggiuntiva ad adeguata velocità in mare e gli stretti controlli delle temperature permettono di ridurre efficacemente gli impatti [14][15][16]. In generale l’industria nucleare si sta dimostrando efficiente nel risolvere i vari problemi ingegneristici causati da condizioni atmosferiche estreme legate alle temperature elevate [17][18][19][20].

Perciò, conclude il JRC, non vi è alcuna prova che l’energia nucleare faccia più danni all’uso sostenibile e alla protezione dell’acqua e delle risorse marine rispetto ad altre tecnologie incluse nella Tassonomia.


Inquinamento atmosferico:
Andando a considerare le emissioni in atmosfera di prodotti come ossidi di azoto (NOx), anidride solforosa (SO2), particolato (PM) e composti organici volatili non metanici (COVNM), particolarmente dannosi per l’uomo e l’atmosfera (p. e. sull’ozonosfera), i valori ottenuti sono migliori o paragonabili rispetto all’energia solare, eolica e idroelettrica (Fig 3.2-8, -18, parte A).


Impatti sulla biodiversità e gli ecosistemi:
Il primo indicatore preso in considerazione è il Terrestrial Ecotoxicity Potential (TETP) e si riferisce all’impatto sugli organismi viventi derivante dalle emissioni nel ciclo di vita di sostanze tossiche nell’aria, nell’acqua e nel suolo. Come per il potenziale di ecotossicità acquatica, l’unità di misura sono i grammi di 1,4-dichlorobenzene equivalenti per unità di energia prodotta (gDCB-eq/kWh). Il secondo indicatore utilizzato è il Potentially Disappeared Fraction ed analizza l’impatto derivante dalle emissioni tossiche nell’aria, nell’acqua e nel suolo valutando la quantità di specie perdute in 1m² di superficie terrestre in un anno, per unità di energia prodotta (PDFm² yr/MWh).
Il terzo indicatore, anch’esso espresso in PDFm² yr/MWh, è l’impatto sulla biodiversità derivante dall’uso di suolo; infatti la modificazione del territorio dovuta alle attività umane è una potenziale causa di perdita di biodiversità. Come mostrato dalle fig. 3.2-22 e 3.2-23 (p. A) del report, il nucleare risulta essere tra le fonti energetiche meno impattanti, con solo il gas naturale sotto di esso.
Si può quindi concludere che non ci sono prove che l’energia nucleare faccia più danni alla protezione e al ripristino della biodiversità e degli ecosistemi rispetto ad altre tecnologie energetiche incluse nella Tassonomia.


Consumo di suolo e risorse:
All’interno delle analisi di LCA, per analizzare il consumo di risorse, si tende a utilizzare il “potenziale di esaurimento abiotico” (ADP), che fa riferimento all’utilizzo delle risorse non viventi (abiotiche) come metalli, minerali e combustibili fossili. Anche lo sfruttamente di risorse naturali presenti in scarse quantità viene tenuto in considerazione. L’unità di misura in questo caso sono i grammi di Antimonio equivalenti divisi sempre per l’energia prodotta (gSb-eq/kWh). 

Vista la grande quantità di energia liberata dalla fissione nucleare, il consumo di risorse rimane generalmente molto limitato, perciò sia l’utilizzo di suolo che l’ADP (fossili e non fossili) vedono l’energia nucleare come fonte energetica più sostenibile, con un impatto significativamente minore di solare ed eolico.

[21]


Produzione di rifiuti:
Dal punto di vista di un’economia circolare, i grandi impianti caratterizzati da un uso elevato di calcestruzzo risultano meno riciclabili rispetto a fonti come eolico e solare, le quali richiedono principalmente metalli. E’ da sottolineare però, che il calcolo di tale potenziale è basato principalmente su costanti di riciclabilità relative ai materiali primari (metalli 100%, calcestruzzo 79.4%), lasciando quindi ampie incertezze sulla reale fattibilità di tale pratica, soprattutto per quanto riguarda il solare.

Viene poi il confronto dei rifiuti più pericolosi generati dalle diverse fonti energetiche, i quali necessitano di essere contenuti in depositi adeguati. Viste le nature diverse di questi scarti (rifiuti chimici e radioattivi), il miglior metro di paragone, anche se molto limitato, è il volume per unità di energia prodotta (m³/kWh). Le quantità di rifiuti chimici generati dall’energia nucleare sono minime (Fig. 3.2-16, p. A), anche più basse di altre fonti rinnovabili, e sono invece i rifiuti radioattivi a caratterizzare tale tecnologia (Fig. 3.2-17, p. A). Un punto importante da sottolineare è che alcuni paesi (p. e. Francia) non considerano il combustibile esausto come uno scarto viste le grandi quantità di uranio e plutonio, riutilizzabili nei reattori autofertilizzanti veloci o tramite il riprocessamento, presenti all’interno. Anche se tali tecnologie non sono ancora impiegabili su larga scala, rappresentano comunque un’opzione per il prossimo futuro, rendendo quindi il combustibile esausto una potenziale risorsa riciclabile.

In conclusione, non ci sono evidenze che l’energia nucleare faccia più danni alla transizione verso un’economia circolare, compresa la prevenzione e il riciclaggio dei rifiuti, rispetto ad altre tecnologie energetiche incluse nella tassonomia.
Tuttavia, per quanto riguarda specificamente i rifiuti radioattivi, è chiaro che l’energia nucleare ne produca quantità maggiori rispetto ad altre tecnologie ed è giusto che essi vengano gestiti dall’industria.
Vi è quindi un’intera sezione del report dedicata a questo argomento (parte B): “Valutazione specifica sullo stato attuale e sulle prospettive di gestione e smaltimento a lungo termine dei rifiuti radioattivi”, che discuteremo in seguito poiché rappresenta uno dei principali dubbi sull’energia nucleare.


Tossicità e altri impatti sulla salute:
Per valutare gli impatti sulla salute umana durante il normale ciclo vita degli impianti (escludendo quindi gli incidenti) si usa il potenziale di tossicità umana (HTP), il quale stima la produzione di tutte le sostanze che possono avere effetti negativi sull’uomo. Si misura in grammi di 1,4-dichlorobenzene equivalenti per unità di energia prodotta e include metalli pesanti, particolato, SOx e NOx, composti organici volatili (COV) e composti organici clorurati. Dalla figura 3.2-20 (p. A) si può vedere che il gas naturale risulta essere la fonte con l’impatto più basso, seguito dall’energia nucleare e poi dalle altre fonti. Tale variabilità è data, come nel caso delle emissioni, dalle assunzioni fatte sulla tecnologia di arricchimento e sull’eventuale riciclo del plutonio. Gli altri due indicatori utilizzati sono i danni alla salute umana, misurati in Disability-adjusted life year per unità di energia prodotta (mDALY/GWh), e la mortalità, misurata in Years of Life Lost per unità di energia prodotta (mYOLL/GWh). Prendono in considerazione gli impatti del cambiamento climatico, la tossicità umana, le radiazioni ionizzanti, la formazione di ossidanti fotochimici e il particolato.

Dalla figura 3.2-21 (p. A) appare evidente che, in termini di impatti sulla salute umana e sulla mortalità, il nucleare sia in linea con fonti come eolico e solare.
Per fare un confronto davvero completo bisogna ovviamente considerare anche il rischio di incidente e le relative conseguenze sul lungo termine (fig. 3.5-1, p. A).
Osservando il tasso di mortalità per unità di energia prodotta (deaths/GWh), si possono notare ampie differenze in base alle regioni considerate (OECD e non-OECD) e alla tecnologia. La II generazione occidentale (OECD) di reattori vanta un mortality rate tra i più bassi, in linea con l’idroelettrico (OECD) e l’eolico. Se invece, come riferimento, viene scelta la III generazione (EPR) il rateo scende sotto al solare, rendendo il nucleare la tecnologia con il fatality rate più basso di tutte. Gli autori, inoltre, sottolineano come l’incidente di Chernobyl risulti essere poco rappresentativo per l’industria nucleare occidentale. Sia per quella attuale che per quella di 40 anni fa, visti i difetti di progettazione già conosciuti all’epoca e vista la minore cultura della sicurezza presente in unione sovietica [22]. 

n.d.a:
In ogni caso le migliori stime attuali, come quella fornita dal sito Our World In Data (al 2015) [23] o quella della dottoressa Geraldine Thomas (in totale)(1) [24], vedono i morti totali tra il centinaio e il migliaio(2). Il tutto considerando la gestione tardiva e poco trasparente (l’incidente fu tenuto nascosto per alcuni giorni) da parte dell’Unione sovietica, ritardando ad esempio la distribuzione di pastiglie di iodio di potassio.
Per quanto riguarda gli incidenti di Fukushima e di Three Mile Island invece, non sono state documentate conseguenze negative sulla salute che siano direttamente attribuibili all’esposizione alle radiazioni e le attuali stime suggeriscono che è improbabile che i possibili effetti dovuti alle radiazioni saranno mai riconoscibili [25][26].

D’altra parte bisogna tenere conto anche dell’altra metrica presa in considerazione nel report (fig. 3.5-1, p. A), ovvero il numero massimo di morti che un incidente grave potrebbe causare. Visto il basso numero di incidenti nucleari, per determinare le conseguenze peggiori per i reattori occidentali (e per l’idroelettrico) ci si basa sul Probabilistic Safety Assessment (PSA), ovvero uno strumento che permette di quantificare matematicamente il rischio associato a impianti complessi. I risultati mostrano che l’energia nucleare può essere considerata in linea con l’idroelettrico per quanto concerne il numero massimo di morti causabili da un incidente.
E’ necessario tenere in considerazione un ulteriore fattore: basarsi sui decessi diretti e indiretti causati dai vari incidenti gravi è certamente uno dei modi più facili e precisi per paragonare tra loro diverse tecnologie, rimane però il fatto che episodi di questo tipo producono anche conseguenze difficilmente misurabili e confrontabili.

n.d.a:
Impatti come quello sulla salute mentale risultano essere difficilmente comparabili tra incidenti di diverso genere e sono particolarmente influenzati dalla percezione che la popolazione ha di fattori di rischio differenti. Si può menzionare ad esempio il caso delle radiazioni, sulle quali si possono osservare differenze molto ampie tra la percezione del rischio degli esperti e della popolazione generale [27]. Questa differenza rappresenta quella è che di fatto una fobia, non esente da conseguenze negative: esistono infatti impatti diretti (sulla salute mentale delle popolazioni spaventate) [28][29] e indiretti (evacuazioni dannose [29][30][31], alti costi derivanti da standard di sicurezza esageratamente conservativi [31] e un contesto sociale che ha sfavorito la costruzione di impianti nucleari a favore di altre fonti meno sicure e sostenibili [32][33]) causati da questa percezione.

I ricercatori del JRC invitano infine a leggere questi dati contestualizzandoli correttamente, ovvero nel mondo reale. Tutti noi infatti, tendiamo ad attribuire maggiore importanza a un gran numero di decessi dovuti a un singolo incidente con bassissima probabilità rispetto alla medesima cifra distribuita invece su un numero maggiore di incidenti più frequenti. Per aiutare a mettere questi numeri in prospettiva, può essere utile confrontarli con i dati sulla mortalità associati ad altre attività umane.
Rispetto a un numero massimo di vittime pari a circa 30.000 persone, associato a un ipotetico incidente nucleare (considerando un reattore di gen III) con una frequenza pari a circa 1 su dieci miliardi di anni di funzionamento del reattore (1/10e9), ogni anno si verificano:

  • 400.000 morti premature all’anno causate dall’inquinamento atmosferico, dovuto in parte significativa ai combustibili fossili (in UE). 
    n.d.a: Di queste 400.000 circa 800 all’anno sono causate dal solo phase out nucleare tedesco (considerando gli 11 reattori spenti tra il 2010 e il 2019 su 17 attivi al 2010) [34].
  • 480.000 morti premature dovute al fumo, di cui più di 40.000 a causa del fumo passivo (negli USA).
  • 22.800 morti per incidenti stradali nel 2019 (in UE).

In conclusione, per quanto riguarda l’esposizione del pubblico in caso di incidente, considerate le conseguenze massime, i tassi di mortalità delle centrali nucleari occidentali di gen II risultano paragonabili all’energia idroelettrica (nei paesi OECD) e all’energia eolica. Considerando invece gli attuali reattori di III generazione, i tassi di mortalità sono i più bassi tra tutte le tecnologie di generazione di elettricità.


Parte B:

Gestione dei rifiuti radioattivi a lungo termine:
Visti i dubbi sulla sicurezza generati dalla lunga durata della radiotossicità di una parte dei prodotti di scarto del ciclo del combustibile, gli autori hanno deciso di dedicare un’intera parte del report (parte B) all’analisi dell’attuale stato dell’arte dei metodi di gestione dei rifiuti nucleari. Ne diamo quindi un riassunto riportando i punti più importanti e le principali conclusioni.

L’agenzia internazionale per l’energia atomica suddivide i rifiuti radioattivi in 6 diverse categorie:

  • Exempt waste: presentano concentrazioni di radionuclidi sufficientemente piccole da non richiedere disposizioni per la radioprotezione. Tali materiali non necessitano di controllo normativo e non richiedono alcuna ulteriore considerazione.
  • Very short-lived waste: contengono solo radionuclidi con emivita molto breve, tali rifiuti possono quindi essere immagazzinati fino a quando l’attività non è scesa al di sotto dei livelli di autorizzazione, consentendo di gestire i rifiuti eliminati come rifiuti convenzionali.
  • Very Low Level Waste (VLLW): non necessitano di un elevato livello di contenimento e, pertanto, sono adatti per lo smaltimento in strutture vicine alla superficie, tipo discariche con controllo normativo limitato.
  • Low Level Waste (LLW): sono al di sopra dei livelli minimi, ma con quantità limitate di radionuclidi a vita lunga. Richiedono un robusto isolamento e contenimento per periodi fino a poche centinaia di anni e sono adatti per lo smaltimento in strutture vicino alla superficie.
  • Intermediate Level Waste (ILW): a causa del loro contenuto, in particolare di radionuclidi a lunga emivita, richiedono un livello maggiore di contenimento e isolamento rispetto a quello fornito dallo smaltimento in superficie. I rifiuti di questa classe necessitano quindi di smaltimento a profondità maggiori, dell’ordine delle decine fino a qualche centinaio di metri.
  • High Level Waste (HLW): rifiuti con livelli di attività sufficientemente elevati da generare quantità significative di calore o rifiuti con grandi quantità di radionuclidi a lunga vita che devono essere presi in considerazione nella progettazione di un impianto di smaltimento definitivo. L’utilizzo di formazioni geologiche profonde e stabili, solitamente a diverse centinaia di metri sotto la superficie, è l’opzione ampiamente accettata per lo smaltimento dei rifiuti ad alta attività. Sono composti prevalentemente da combustibile esausto proveniente dalle centrali nucleari, ma derivano anche dal settore militare e medico.

I rifiuti radioattivi vengono quindi raccolti e analizzati per determinarne le proprietà fisiche, chimiche e radiologiche, per poi esser selezionati e isolati a seconda del percorso di gestione che dipende anche dalla strategia nazionale.

Lo stoccaggio (temporaneo per definizione) garantisce la sicurezza dei rifiuti radioattivi fino all’avvio dell’impianto di smaltimento (definitivo p.d.) ed è un passaggio necessario per consentire il decadimento dei radionuclidi a vita breve e per accumulare una quantità sufficiente di rifiuti per lo smaltimento. Infatti, tra i motivi per cui molte nazioni hanno atteso a lungo per iniziare a costruire il proprio deposito geologico c’è anche la quantità molto ridotta di rifiuti di alto livello prodotti.

n.d.a:
A riguardo, la Nuclear Energy Agency, in un report specifico sul tema spiega che “l’esperienza pluridecennale di stoccaggio in sicurezza del combustibile nucleare esaurito ha fornito il tempo necessario ai programmi dei depositi geologici di profondità per procedere con ritmo controllato, guidati dalle informazioni scientifiche e senza la necessità di affrettarne lo smaltimento” [35]. Perciò, l’approccio cauto adottato a livello globale per definire i siti di smaltimento, non comporta e non ha comportato rischi per le popolazioni per quanto riguarda gli HLW generati nei decenni passati.

La sicurezza dei rifiuti radioattivi e del combustibile esausto, durante lo stoccaggio, è garantita da adeguate caratteristiche di sicurezza passiva (contenimento, schermatura, ecc.), ma anche dal monitoraggio e dal controllo attivi da parte degli operatori degli impianti.
Lo smaltimento finale del combustibile esaurito e degli altri HLW prevede invece la collocazione in un sistema multi-barriera (ingegnerizzato e naturale), a sua volta in una formazione geologica stabile e a diverse centinaia di metri sotto il livello del suolo.
Per quanto riguarda i rifiuti altamente radioattivi, esiste un ampio consenso tra gli esperti del settore sul fatto che lo smaltimento finale in depositi geologici profondi sia la soluzione più efficace e più sicura, in grado di garantire che non venga causato alcun danno significativo alla vita umana e all’ambiente per i periodi di tempo necessari. 
E’ importante sapere che la configurazione specifica del deposito dipende anche dal contenuto di radioattività dei rifiuti e dalla politica nazionale. Infatti, alcuni paesi come la Francia hanno stabilito che il deposito geologico debba essere reversibile, per sfruttare in futuro l’elevato potenziale energetico contenuto nel combustibile esausto (con i reattori di IV generazione) e diminuirne la pericolosità, altri, come la Svezia, hanno dimostrato la reversibilità ma senza determinare alcun obbligo.
Le simulazioni dimostrano che, anche nei worst case scenario, la dose assorbita dalla popolazione risulterebbe essere diversi ordini di grandezza minore della dose annua assunta da una persona media.

L’implementazione di un deposito geologico profondo per garantire che i rifiuti radioattivi non danneggino il pubblico e l’ambiente è quindi un processo graduale, che comprende una combinazione di soluzioni tecniche e un forte quadro amministrativo, legale e normativo. Ogni passo viene intrapreso sulla base di un processo decisionale documentato, in cui vengono incorporati lo stato dell’arte tecnico e scientifico, l’esperienza operativa, gli aspetti sociali e gli aggiornamenti del quadro giuridico e normativo. La conformità deve essere assicurata e dimostrata per tutte le fasi soggette a monitoraggio attivo da parte degli operatori e anche per la durata molto lunga associata allo smaltimento finale dei rifiuti ad alta attività e del combustibile esaurito (fase di post-chiusura). Questo approccio consente un processo decisionale flessibile che consente di scegliere tra diverse opzioni per il futuro.


Conclusioni:

La conclusione degli autori è chiara: tutti gli impatti potenzialmente dannosi per la salute umana e per l’ambiente, delle varie fasi del ciclo di vita dell’energia nucleare, possono essere debitamente prevenuti o evitati. La produzione di elettricità basata sull’energia nucleare e le attività associate all’intero ciclo del combustibile nucleare (estrazione dell’uranio, fabbricazione del combustibile, ecc.) non rappresentano un danno significativo per l’uomo e l’ambiente, a condizione che tutte le attività coinvolte soddisfino i criteri della tassonomia.

Commenti aggiuntivi:
Spesso sembra che una qualsiasi difficoltà riguardante l’energia nucleare (p.e. i rifiuti radioattivi) sia sufficiente per stabilire che tale tecnologia non debba essere utilizzata per quella singola motivazione, senza neanche dare spazio alle strategie, ormai assodate, adottate per risolvere tale problematica.
Contestualizzare gli impatti ambientali, confrontandoli a quelli di altre tecnologie, è necessario per prendere decisioni razionali basate sull’evidenza e purtroppo risulta essere un’operazione raramente svolta per questa fonte energetica.
Il report JRC, così come quello UNECE (menzionato nel nostro articolo gemello), svolgono questo lavoro, dando un’idea esaustiva delle esternalità positive e negative dell’energia nucleare rispetto alle altre fonti.
Dobbiamo anche sottolineare che sono stati pubblicati alcuni report che evidenziano diverse lacune presenti nella pubblicazione del JRC [36], anche da enti scientifici attendibili come l’Ufficio federale per la sicurezza della gestione dei rifiuti nucleari assieme all’Ufficio federale per la radioprotezione tedeschi [37]. In questo caso gli esperti concludono che, viste determinate mancanze del report JRC, soprattutto per quanto riguarda la questione dei rifiuti radioattivi, l’energia nucleare in realtà non rispetti il criterio di DNSH.
La problematica che però ci appare evidente è l’utilizzo di uno standard differente rispetto ad altre tecnologie unito alla mancanza di un confronto generale tra costi e benefici. Per ogni tecnologia si possono individuare dei pro e dei contro significativi che, in base a differenze di percezione e conoscenze, possono essere determinanti per stabilire se essa soddisfi il criterio di DNSH o no. Fonti variabili come eolico e solare, per esempio, comportano grandi difficoltà per la sicurezza e la stabilità della rete elettrica, soprattutto se vi si unisce l’eliminazione di fonti dispacciabili come il nucleare o il gas [38][39]. Si potrebbe anche analizzare più approfonditamente, rispetto a quanto è richiesto dalla tassonomia [40], la questione degli impatti ambientali e sociali, dovuti soprattutto alle fasi di estrazione e lavorazione, dei materiali necessari alle tecnologie utilizzate nella transizione energetica. Tali passaggi infatti, presentano alcune criticità a causa dell’instabilità e della poca trasparenza che caratterizzano le regioni dove avvengono [41][42][43][44]. Da questo punto di vista si è, giustamente, accettata la necessità di tali risorse in quanto parte della soluzione per quello che rappresenta il rischio maggiore: il cambiamento climatico. E’ però importante non dimenticare anche le conseguenze di questa trasformazione, come ad esempio la necessità di dover riprogettare la rete elettrica, con conseguenti rischi derivanti dal rapido cambio di paradigma (p.e. [45]) e dall’attuale mancanza, per alcuni aspetti (frequenza della rete, inerzia, storage…), di soluzioni comprovate realizzabili su larga scala [46][47][48].
Alla luce di quanto esposto è determinante chiedersi se i rifiuti ad alta attività, insieme a tutti gli altri “problemi” che vengono attribuiti all’energia nucleare, rappresentino un rischio maggiore rispetto a quello di fallire l’obiettivo di decarbonizzare la produzione di energia, con le conseguenti esternalità negative legate all’utilizzo di combustibili fossili (sia per quanto riguarda l’inquinamento che per quanto riguarda il riscaldamento globale). Considerando la grandezza della sfida che ci si pone davanti, i rischi associati a potenziali ritardi [49] e/o fallimenti, l’incertezza legata alle previsioni su certe tecnologie e la fragilità a piccole perturbazioni di modelli e previsioni troppo rigidi ed impegnativi, escludere a priori la tecnologia nucleare diventa una scelta definibile quantomeno come molto rischiosa.
Invitiamo quindi a tentare, ogni qual volta si parli di nucleare e dei suoi rischi, di mantenere un’ottica ad ampio spettro, valutando sempre quali potrebbero essere le alternative concrete al suo mancato utilizzo e i relativi rischi.

“They can’t have it both ways. If they say this [Climate Change] is apocalyptic or it’s an unacceptable risk, and then they turn around and rule out one of the most obvious ways of avoiding it [Nuclear Power], they’re not only inconsistent, they’re insincere.”

– Kerry Emanuel

Note:

  1. I calcoli fatti direttamente dalla professoressa Thomas sono qua disponibili

Le fonti utilizzate si possono trovare a questa pagina

  1. Partendo da 20.000 casi di tumore alla tiroide nel periodo 1991-2015 si ottiene un minimo di 1400, un valore probabile di 5000 e un massimo di 10.000 casi attribuibili alle radiazioni (incertezza del 7%-50% con valore probabile del 25%) [50]. Su questi circa il 99% sopravvive [51] ottenendo quindi un range tra 14 e 100 (valore probabile di 50) morti dovuti direttamente alle radiazioni. Aggiungendo al valore massimo (100) i 31 lavoratori deceduti (3 subito dopo l’incidente e 28 in seguito all’avvelenamento acuto da radiazioni [52]) si ottiene una stima di 131 decessi totali al 2015.

Bibliografia:

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[2] SCHEER review of the JRC report on Technical assessment of nuclear energy with respect to the ‘do no significant harm’ criteria of Regulation (EU) 2020/852

[3] Group of Experts referred to in Article 31 of the Euratom Treaty on the Joint Research Centre’s Report Technical assessment of nuclear energy with respect to the ‘do no significant harm’ criteria of Regulation (EU) 2020/852 (‘Taxonomy Regulation’)

[4] World Nuclear Association. (2011). Comparison of Lifecycle Greenhouse Gas Emissions of Various Electricity Generation Sources. July 2011

[5] Warner, E.S. and Heath, G.A. (2012), Life Cycle Greenhouse Gas Emissions of Nuclear Electricity Generation. Journal of Industrial Ecology, 16: S73-S92.

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